Il risparmio energetico non va ridotto a questione ambientale (pur
gravissima, ricordate il golfo del Messico?) o di portafoglio: ha
anche enormi risvolti sociali. Per la lettura di questa domenica vi
propongo brani di un articolo apparso sul numero di novembre 2011 di Altreconomia.
Goi è un villaggio fantasma. La
scuola è diroccata, il piccolo municipio ricoperto da erbacce, di alcune
case non rimangono che muri scrostati. Dal 2009 qui non vive più
nessuno.
A segnare per sempre il destino di Goi sono state le perdite della Trans
Niger Pipeline, l’oleodotto che attraversa la regione fino al
terminale di Bonny, dove il greggio viene processato prima di essere
esportato in tutto il mondo. Nel 2004 un tubo della Shell
vecchio di decenni non ha resistito più all’usura del tempo, crepandosi
e versando il suo carico funesto nello specchio d’acqua accanto al
quale era sorto il villaggio. Gli alberi e le piante si sono ammalati, i
pesci sono morti, la terra si è impregnata di una sostanza oleosa che
ne ha minato la fertilità. Di perdite ce ne sono state ancora, nel 2008 e
nel 2009, ma di opere di bonifica non si è vista nemmeno l’ombra.
Eric Dooh, uno dei capi della comunità di Goi, ci
illustra la triste storia della sua famiglia. Qui suo padre dava lavoro a
oltre 200 persone, tra un’impresa ittica e un panificio. “Adesso non
c’è più nulla da pescare e l’acqua e la legna che usavamo per il
panificio sono contaminate. Nessuno ci ha risarcito per il danno
economico che abbiamo subito, anzi, come tutti gli altri ce ne siamo
dovuti andar via” racconta mentre ci mostra i forni dove veniva cotto il
pane, ormai spenti da anni. Ma le conseguenze del disastro non si
fermano qui. “Mia madre è morta per una malattia respiratoria, anche io
uso continuamente medicinali per lo stesso tipo di problemi.
All’improvviso sono diventato allergico all’ambiente dove sono nato e
vissuto per tanto tempo con la mia famiglia”.
[...]
Nel Delta i devastanti impatti dall’attività
estrattiva si incontrano ovunque. A Ebocha, nel Rivers State, una
società sussidiaria dell’Eni chiamata Nigerian Agip Oil Corporation (Naoc)
ha iniziato la produzione nel 1970. Mentre incontriamo una settantina
di rappresentanti della comunità locale nell’ampia sala della chiesa,
fuori piove a dirotto. Una volta da queste parti la pioggia era una
benedizione; insieme alla estrema fertilità del terreno faceva sì che
bastasse un solo raccolto per sfamare tutta la popolazione e riuscire
anche a rivendere quello che avanzava. “Ora nemmeno con tre o quattro
semine riusciamo a far fronte ai nostri bisogni” ci spiega Edna.
Questa donna dallo sguardo fiero e dal piglio determinato ha 59 anni,
sebbene ne dimostri 20 di più, e si rammenta quando in questi luoghi la
gente era autosufficiente e ben felice di vivere in un vero e proprio
paradiso. “A quei tempi per raccogliere la manioca dovevi tagliarla, ora
le radici sono così piccole e avvizzite che si può prendere con le mani
senza fare il minimo sforzo”.
Colpa delle piogge acide provocate dal gas flaring, il gas
connesso al processo d’estrazione del greggio e bruciato in torcia.
All’ingresso del villaggio di Ebocha contiamo tre torri le cui sommità
sputano senza soluzione di continuità lingue di fuoco che salgono in
cielo per oltre una ventina di metri. Il gas flaring fa ormai parte del
panorama, 24 ore al giorno, sette giorni a settimana e dodici mesi
l’anno.
[...]
Anche nei paraggi di Kwale e Okpai, villaggi del
Delta State a poche decine di chilometri da Ebocha, i pennacchi di fuoco
di almeno cinque gas flaring fanno capolino tra la fitta vegetazione
tropicale. Anche questa è un’area di competenza dell’Eni, tramite la
Naoc. Qui però le tensioni sociali sono molto più marcate. Mentre
percorriamo le strade sterrate costeggiate da povere case con tetti di
lamiera -che le piogge acide rovinano dopo pochi mesi- e muri di fango,
l’avvocato Chimennma Hessington Okolo ci fornisce un quadro molto chiaro
della situazione. In qualità di presidente della federazione nazionale
dei giovani Ndokwa svolge un ruolo attivo all’interno delle varie
comunità interessate: “Petrolio e gas sono risorse limitate, non durano
per sempre. Sono risorse del nostro territorio, chi le estrae deve
contribuire allo sviluppo delle comunità. E cosa ci ha lasciato Agip
dopo tanti anni? Niente scuole, niente strade, se non qualche chilometro
di asfalto per raggiungere i propri impianti. Allo stesso tempo ha
preso la nostra terra, ha inquinato i nostri fiumi. Soffriamo di
malattie respiratorie sconosciute in passato. E se alziamo la testa per
protestare, arriva l’esercito a reprimerci”.
Aggiungo solo che il gas flaring in Nigeria è illegale da decenni, e diffonde nell'atmosfera diossina, benzene, sulfuri e particolati vari, tutti agenti cancerogeni.
L'articolo è il riassunto di un rapporto scaricabile integralmente dal sito della CRBM: il Delta dei veleni; nelle cui conclusioni si dice che "se questo deve essere il prezzo [...], crediamo sia arrivato il momento di voltare pagina e rinunciare alla dipendenza dai combustibili fossili".
Non c'è pace per il Delta del Niger: sabato 16 gennaio una piattaforma petrolifera della Chevron, a una decina di chilometri dalla costa, ha preso fuoco. L'incendio continua ininterrotto da allora, e non ci sono dettagli sulla quantità di greggio disperso.
RispondiEliminaLe comunità di Kolouma, che dipendono in larga misura dalla pesca, denunciano che la Chevron non ha preso provvedimenti concreti per limitare i danni, anzi non ha nemmeno avviato un'attività di monitoraggio.