domenica 19 febbraio 2012

Delta del Niger

Il risparmio energetico non va ridotto a questione ambientale (pur gravissima, ricordate il golfo del Messico?) o di portafoglio: ha anche enormi risvolti sociali. Per la lettura di questa domenica vi propongo brani di un articolo apparso sul numero di novembre 2011 di Altreconomia.

Goi è un villaggio fantasma. La scuola è diroccata, il piccolo municipio ricoperto da erbacce, di alcune case non rimangono che muri scrostati. Dal 2009 qui non vive più nessuno.
A segnare per sempre il destino di Goi sono state le perdite della Trans Niger Pipeline, l’oleodotto che attraversa la regione  fino al terminale di Bonny, dove il greggio viene processato prima di essere esportato in tutto il mondo. Nel 2004 un tubo della Shell vecchio di decenni non ha resistito più all’usura del tempo, crepandosi e versando il suo carico funesto nello specchio d’acqua accanto al quale era sorto il villaggio. Gli alberi e le piante si sono ammalati, i pesci sono morti, la terra si è impregnata di una sostanza oleosa che ne ha minato la fertilità. Di perdite ce ne sono state ancora, nel 2008 e nel 2009, ma di opere di bonifica non si è vista nemmeno l’ombra.  
Eric Dooh, uno dei capi della comunità di Goi, ci illustra la triste storia della sua famiglia. Qui suo padre dava lavoro a oltre 200 persone, tra un’impresa ittica e un panificio. “Adesso non c’è più nulla da pescare e l’acqua e la legna che usavamo per il panificio sono contaminate. Nessuno ci ha risarcito per il danno economico che abbiamo subito, anzi, come tutti gli altri ce ne siamo dovuti andar via” racconta mentre ci mostra i forni dove veniva cotto il pane, ormai spenti da anni. Ma le conseguenze del disastro non si fermano qui. “Mia madre è morta per una malattia respiratoria, anche io uso continuamente medicinali per lo stesso tipo di problemi. All’improvviso sono diventato allergico all’ambiente dove sono nato e vissuto per tanto tempo con la mia famiglia”.

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Nel Delta i devastanti impatti dall’attività estrattiva si incontrano ovunque. A Ebocha, nel Rivers State, una società sussidiaria dell’Eni chiamata Nigerian Agip Oil Corporation (Naoc) ha iniziato la produzione nel 1970. Mentre incontriamo una settantina di rappresentanti della comunità locale nell’ampia sala della chiesa, fuori piove a dirotto. Una volta da queste parti la pioggia era una benedizione; insieme alla estrema fertilità del terreno faceva sì che bastasse un solo raccolto per sfamare tutta la popolazione e riuscire anche a rivendere quello che avanzava. “Ora nemmeno con tre o quattro semine riusciamo a far fronte ai nostri bisogni” ci spiega Edna. Questa donna dallo sguardo fiero e dal piglio determinato ha 59 anni, sebbene ne dimostri 20 di più, e si rammenta quando in questi luoghi la gente era autosufficiente e ben felice di vivere in un vero e proprio paradiso. “A quei tempi per raccogliere la manioca dovevi tagliarla, ora le radici sono così piccole e avvizzite che si può prendere con le mani senza fare il minimo sforzo”.
Colpa delle piogge acide provocate dal gas flaring, il gas connesso al processo d’estrazione del greggio e bruciato in torcia. All’ingresso del villaggio di Ebocha contiamo tre torri le cui sommità sputano senza soluzione di continuità lingue di fuoco che salgono in cielo per oltre una ventina di metri. Il gas flaring fa ormai parte del panorama, 24 ore al giorno, sette giorni a settimana e dodici mesi l’anno.

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Anche nei paraggi di Kwale e Okpai, villaggi del Delta State a poche decine di chilometri da Ebocha, i pennacchi di fuoco di almeno cinque gas flaring fanno capolino tra la fitta vegetazione tropicale. Anche questa è un’area di competenza dell’Eni, tramite la Naoc. Qui però le tensioni sociali sono molto più marcate. Mentre percorriamo le strade sterrate costeggiate da povere case con tetti di lamiera -che le piogge acide rovinano dopo pochi mesi- e muri di fango, l’avvocato Chimennma Hessington Okolo ci fornisce un quadro molto chiaro della situazione. In qualità di presidente della federazione nazionale dei giovani Ndokwa svolge un ruolo attivo all’interno delle varie comunità interessate: “Petrolio e gas sono risorse limitate, non durano per sempre. Sono risorse del nostro territorio, chi le estrae deve contribuire allo sviluppo delle comunità. E cosa ci ha lasciato Agip dopo tanti anni? Niente scuole, niente strade, se non qualche chilometro di asfalto per raggiungere i propri impianti. Allo stesso tempo ha preso la nostra terra, ha inquinato i nostri fiumi. Soffriamo di malattie respiratorie sconosciute in passato. E se alziamo la testa per protestare, arriva l’esercito a reprimerci”.

Aggiungo solo che il gas flaring in Nigeria è illegale da decenni, e diffonde nell'atmosfera diossina, benzene, sulfuri e particolati vari, tutti agenti cancerogeni.
L'articolo è il riassunto di un rapporto scaricabile integralmente dal sito della CRBM: il Delta dei veleni; nelle cui conclusioni si dice che "se questo deve essere il prezzo [...], crediamo sia arrivato il momento di voltare pagina e rinunciare alla dipendenza dai combustibili fossili".

1 commento:

  1. Non c'è pace per il Delta del Niger: sabato 16 gennaio una piattaforma petrolifera della Chevron, a una decina di chilometri dalla costa, ha preso fuoco. L'incendio continua ininterrotto da allora, e non ci sono dettagli sulla quantità di greggio disperso.
    Le comunità di Kolouma, che dipendono in larga misura dalla pesca, denunciano che la Chevron non ha preso provvedimenti concreti per limitare i danni, anzi non ha nemmeno avviato un'attività di monitoraggio.

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