domenica 22 gennaio 2012

Fantapolitica (II)

Mettetevi comodi, dimenticatevi del resto del mondo per 5 minuti, fate un bel respiro; ecco, adesso potete cominciare a leggere.

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.

Alcuni l'avranno riconosciuto; per gli altri, risulterà sorprendente sapere che avete appena letto il discorso che Robert Kennedy pronunciò presso l'università del Kansas il 18 marzo 1968. 
Ricordo che la prima volta che lo lessi, già a metà mi vennero le lacrime agli occhi, commosso da quelle parole, in anticipo di  almeno 30 anni su posizioni che solo da poco cominciano a riemergere dopo la sbornia neoliberista del dominio dell’economia, e che a sostenerle oggi si viene subito etichettati come estremisti o, nella migliore delle ipotesi, come poveri illusi.
E invece ne ricavai una nuova e inattesa consapevolezza di non essere un ingenuo sognatore: lo stile di vita che noi cerchiamo di praticare può addirittura diventare un proclama politico.

Forse anche per quel discorso, Robert Kennedy fu assassinato tre mesi dopo, durante la sua campagna elettorale che lo avrebbe  probabilmente portato a divenire Presidente degli Stati Uniti d'America. E scommetto che anche a voi verrà il groppo in gola, sentendolo dalla sua voce.

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